Alcuni brand videoludici, nati tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a cavallo tra l’epoca d’oro degli arcade e l’emergere dell’intrattenimento domestico, hanno assunto un ruolo centrale nella costruzione dell’immaginario collettivo legato al medium. Titoli come Space Invaders, Donkey Kong o Pac-Man non erano solo videogiochi: erano simboli culturali capaci di travalicare il contesto d’origine, incarnando un’estetica, un linguaggio e un modo di giocare che avrebbe segnato le generazioni successive. Nonostante le evidenti limitazioni tecniche dell’epoca, il loro impatto si è rivelato duraturo e profondo, influenzando game design, stile visivo e iconografia fino a oggi. In particolare Pac-Man, con la sua forma semplice e il gameplay immediato, è diventato un’icona pop riconoscibile quanto pochi altri simboli nel panorama mediale globale, capace di attraversare decenni e ispirare reinterpretazioni inaspettate e ambiziose, come Shadow Labyrinth.
Nato nel 1980 da un’intuizione di Toru Iwatani, Pac-Man ha rappresentato un’immediata rivoluzione nel panorama arcade, grazie al suo design accessibile, alla forte componente iconica e alla capacità di coinvolgere un pubblico trasversale, comprese per la prima volta molte giocatrici. Il successo fu planetario, con innumerevoli porting, gadget, cartoni animati e un seguito più che dignitoso (Ms. Pac-Man). Tuttavia, con il passaggio all’era dei 16 e 32 bit e l’affermazione dei giochi narrativi o 3D, il personaggio ha perso progressivamente visibilità, finendo per restare attivo solo in produzioni minori o operazioni nostalgiche. Il suo vero ritorno in grande stile è avvenuto su Nintendo Switch con Pac-Man 99, variante battle royale a tempo reale che ha saputo fondere la semplicità degli arcade con le logiche moderne di sfida online asincrona, in perfetta sintonia con l’anima della console ibrida e con il DNA “da partita veloce” che Nintendo sa esaltare meglio di chiunque altro. Da qui è ripartita una riscoperta più autoriale del brand, che ha trovato espressione anche nella serie Secret Level di Amazon Prime: un’antologia videoludica dai toni imprevedibilmente maturi e inquietanti, nella quale l’episodio dedicato a Pac-Man sorprende con una lettura cupa, alienata e metaforica dell’eterno inseguimento, diventando la scintilla da cui nasce Shadow Labyrinth, videogioco che ne eredita atmosfere e approccio.
Shadow Labyrinth prende le mosse dall’immaginario e dalle meccaniche fondamentali del classico Pac-Man, ma lo fa piegandole a un’idea completamente nuova, ibrida e più stratificata, a metà tra l’action adventure, l’horror psicologico e il dungeon crawler labirintico. Il gioco si sviluppa attraverso una struttura a livelli interconnessi, con visuale isometrica e controllo libero del personaggio, che si muove in ambienti claustrofobici, pieni di trappole, segreti e presenze minacciose. Le fasi si dividono principalmente in tre momenti distinti ma complementari: esplorazione, sopravvivenza e risoluzione ambientale. Durante l’esplorazione, il giocatore raccoglie sfere luminose (chiaro richiamo ai pellet dell’originale), trova oggetti chiave e attiva meccanismi per aprire passaggi o scoprire nuove aree. La fase di sopravvivenza introduce nemici invulnerabili che inseguono in modo persistente, ricordando da vicino i ghost originali, ma con un’intelligenza artificiale imprevedibile e movenze inquietanti, capaci di generare una costante tensione. Infine, la componente enigmistica spinge a ragionare sulla disposizione spaziale, sull’uso del suono e delle luci, e sull’analisi degli indizi ambientali. Non mancano contaminazioni stealth (con zone d’ombra da sfruttare per nascondersi), elementi tipici dei roguelike (layout variabile di alcune mappe) e persino sezioni testuali che richiamano la visual novel in alcuni intermezzi narrativi. Il risultato è un titolo dalla forte identità sperimentale, che trasforma un’icona arcade in una creatura oscura e moderna.