Lost Eidolons: Veil of the Witch : la recensione

Tra strategia e dannazione, Lost Eidolons: Veil of the Witch trasforma ogni sconfitta in un passo verso la verità — e ogni battaglia in una rinascita.

Spin-off e al tempo stesso erede spirituale di Lost Eidolons, Veil of the Witch riprende il mondo e le regole del suo predecessore per cercare di reinventarle in una chiave più agile, moderna e sperimentale. Se il primo titolo di Ocean Drive Studio puntava su una campagna lineare e strutturata, ricca di dialoghi, intrighi e battaglie tattiche dal ritmo misurato, questo nuovo episodio ne ribalta la formula abbracciando una struttura roguelite, dove la morte non segna la fine ma l’inizio di un nuovo ciclo. Da ogni run, a prescindere dall’epilogo, impareremo qualcosa, o ci porteremo dietro qualche skill utilissima in seguito. I due giochi condividono ambientazione e atmosfera, ma possono essere affrontati a prescindere dalla cronologia di release: Veil of the Witch si svolge nello stesso mondo devastato da guerre e magie, ma racconta una storia autonoma, pensata anche per chi non ha mai toccato il primo capitoloAshe, il protagonista, si risveglia senza memoria su un’isola isolata e corrotta da forze oscure. Tra cultisti, non-morti e rovine dimenticate, incontra una misteriosa strega che gli offre un patto: combattere come suo campione in cambio della possibilità di ritrovare sé stesso. Accettando, Ashe viene trascinato in un ciclo di battaglie, morti e rinascite, dove ogni sconfitta porta nuovi frammenti di memoria. Lungo il cammino raccoglie alleati, reliquie e verità scomode, scoprendo che il confine tra salvezza e maledizione è più sottile di quanto sembri. È una mitologia che non pretende di riscrivere le regole del fantasy, ma che trova un’identità precisa nella sua struttura ciclica e nel modo in cui intreccia narrativa e gameplay, pur non discostandosi di molto dai topoi del genere.

Fin dai primi minuti si percepisce come il team americano-coreano Ocean Drive Studio abbia voluto spingere la formula strategica verso qualcosa di più immediato e rigiocabile. Le battaglie su griglia restano il cuore pulsante dell’esperienza, ma ora sono inserite in un ciclo di run, ognuna diversa dall’altra, in cui il giocatore guida un piccolo gruppo di eroi scelti da un roster di nove personaggi. Ognuno di essi ha abilità, armi e affinità proprie, e la gestione delle sinergie fra classi, elementi e reliquie diventa il vero banco di prova per chi ama la pianificazione tattica. Dopo ogni scontro si aprono bivi che conducono a eventi casuali, nuove battaglie o reliquie misteriose, in un continuo equilibrio fra rischio e ricompensa. Meglio il percorso apparentemente più ostico ma remunerativo, o quello più tranquillo ma che rende poco? Morire, come è classico nei giochi con tendenze roguelite, non è una punizione ma un passaggio obbligato: ad ogni caduta si torna all’Altare del Fuoco, dove si sbloccano potenziamenti permanenti, abilità aggiuntive o nuovi membri del gruppo. È un approccio che ricorda i migliori roguelite moderni, e che un capolavoro come Hades ha definitivamente sdoganato al pubblico di massa, ma applicato con rigore al genere tattico, senza tradirne la profondità. La sensazione di progressione è ben calibrata: anche quando si fallisce, si ottiene qualcosa. Nuove reliquie, punti esperienza, scoperte che rendono ogni tentativo più efficace. L’insieme crea una spirale di sfida e soddisfazione che cattura facilmente l’interesse. Gli sviluppatori dimostrano di conoscere bene il linguaggio dei tattici a turni: ogni mossa va ponderata, ogni errore si paga, ma il sistema è sempre chiaro e raramente punitivo in modo ingiusto. I combattimenti sfruttano la posizione, le debolezze elementali, il terreno e le combo di squadra, mentre il ritmo delle battaglie è più agile rispetto al prequel, con meno dispersione e un’attenzione maggiore all’essenziale. Dal punto di vista artistico e tecnico, Veil of the Witch mantiene la coerenza estetica dell’originale, con ambientazioni cupe, rovine e campi di battaglia avvolti da un tono malinconico. Non è un titolo che colpisce per il fotorealismo o per l’esuberanza grafica, ma si difende bene grazie a una direzione artistica solida e leggibile, che privilegia chiarezza e atmosfera. Il doppiaggio inglese è di buon livello e i testi sono completamente localizzati in italiano, cosa non scontata per una produzione di fascia media.

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