Prison Alone: la recensione

Soli e abbandonati...o forse no?!

Negli ultimi anni, l’horror in prima persona ha trovato nuova linfa vitale nel panorama indie, complice un formato agile e un costo di produzione contenuto, capace di attrarre team piccoli ma creativi. Capisaldi del genere come Amnesia: The Dark Descent, Outlast o Layers of Fear hanno definito una grammatica ormai riconoscibile: esplorazione soggettiva, ambientazioni anguste, uso intelligente della luce e del sonoro, e una tensione crescente più legata alla suggestione che all’azione. La formula ha portato a esperienze memorabili, capaci di inquietare profondamente senza mai ricorrere all’eccesso. Ma, come spesso accade, il successo ha generato una pletora di epigoni ben meno ispirati: giochi derivativi, poveri di idee, sorretti da jumpscare abusati e meccaniche reiterative. In un mare di tentativi, non è raro imbattersi in titoli che confondono lentezza con atmosfera e carenza di gameplay con essenzialità autoriale. Sta al giocatore – o al recensore – saper distinguere le perle dalle pallide imitazioni.

Sviluppato dallo studio indipendente polacco Valko Game Studios e pubblicato inizialmente su PC nel 2023, Prison Alone nasce come progetto a basso budget ma ad alta ambizione, alimentato da una campagna promozionale minimalista e una discreta curiosità sui social dedicati al mondo horror. Il concept ruota attorno a un’esperienza d’isolamento psicologico e sopravvivenza ambientata in un carcere abbandonato, prendendo ispirazione dichiarata da titoli come Silent Hill e Outlast, ma con l’obiettivo di mantenere un tono più claustrofobico e silenzioso. Il gioco ha ricevuto inizialmente recensioni miste su Steam, con una community divisa tra chi ne ha apprezzato l’atmosfera disturbante e chi ne ha criticato l’eccessiva semplicità e l’assenza di una vera progressione ludica. La conversione per Nintendo Switch è arrivata nel giugno 2025, nella scia di un rinnovato interesse per le esperienze horror portatili, con un porting che tenta di preservare le ambizioni narrative e sensoriali dell’originale, pur con tutti i limiti del caso.

La trama di Prison Alone si sviluppa attorno a un protagonista senza nome, rinchiuso misteriosamente in un carcere apparentemente dismesso, dove il confine tra realtà e allucinazione si fa progressivamente più labile. Nessuna spiegazione iniziale, nessuna introduzione: il giocatore si risveglia in una cella buia, senza memoria né contesto, e dovrà esplorare le anguste sezioni del penitenziario per ricostruire i frammenti del proprio passato. Attraverso documenti sparsi, voci distorte e improvvise manifestazioni sovrannaturali, emerge un racconto disturbante di colpa, espiazione e traumi irrisolti. La narrazione, volutamente frammentaria e criptica, abbandona qualsiasi linearità in favore di un approccio interpretativo, lasciando al giocatore il compito di decifrare indizi ambientali e accadimenti onirici. Il tema ricorrente è quello dell’isolamento mentale, rafforzato da una regia visiva che moltiplica i momenti di disorientamento, e da un audio che gioca con distorsioni e rumori improvvisi. Un racconto volutamente ermetico, più sensoriale che esplicito, che punta sull’inquietudine più che sulla narrazione tradizionale.

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