A Dream About Parking Lots: la recensione

Parcheggiare è facile, ritrovare l’auto è un viaggio interiore.

Chiunque sia mai uscito da un centro commerciale a fine giornata, stanco e con troppe buste in mano, sa cosa vuol dire guardarsi intorno e non avere la minima idea di dove abbia parcheggiato la macchina. Senza contare chi magari non ricorda dove aver lasciato la macchina, nei pressi di casa propria, dopo una serata un pò allegra. Ci si aggira tra stalli tutti uguali, con la sensazione di essere finiti in una specie di sogno lucido, dove il tempo si dilata e le auto si moltiplicano, tutte uguali come cloni. “A Dream About Parking Lots” parte da questa sorta di esperienza universale e la trasforma in un viaggio surreale, mescolando sogni lucidi e dialoghi interiori in un racconto breve ma carico di spaesamento. Il gioco, sviluppato dal team indipendente Interactive Dreams, si presenta come un walking simulator essenziale, con l’obiettivo dichiarato di trasportare il giocatore in una dimensione onirica dove il labirinto del parcheggio diventa metafora di un blocco emotivo e creativo. Non ci sono nemici, non ci sono enigmi da risolvere, né dinamiche ludiche complesse, anzi a dire il vero la componente ludica è praticamente nulla: il cuore dell’esperienza è la sensazione di vagare, fisicamente e mentalmente, alla ricerca di un punto di riferimento. Dal punto di vista del gameplay, l’esperienza è volutamente ridotta all’osso. Si cammina, si preme un tasto per far suonare il telecomando dell’auto, si ascoltano le conversazioni con un terapista che fa domande e suggerisce riflessioni. I dialoghi sono strutturati con semplici scelte a risposta multipla, che non modificano sostanzialmente il flusso della narrazione, ma aggiungono sfumature al racconto interiore del protagonista. La progressione avviene attraverso l’esplorazione di parcheggi/labirinti che diventano sempre più articolati, con ambienti che mutano impercettibilmente e che riflettono lo stato emotivo del personaggio. Non si tratta di un viaggio verso un obiettivo concreto, ma di una lenta discesa nei meandri della propria percezione.

La scelta di mantenere un ritmo così pacato non è affatto casuale. La camminata lenta, quasi meditativa, costringe il giocatore a vivere ogni singolo passo come parte integrante del messaggio, trasformando il semplice atto di muoversi in un rituale di introspezione. Non esistono scorciatoie, né espedienti ludici che spezzino la monotonia: la ripetitività è deliberata, e diventa lo strumento attraverso cui il gioco cerca di evocare il senso di smarrimento e di immobilità emotiva che vuole raccontare. È come se il parcheggio stesso diventasse un limbo, un luogo in cui il tempo si dilata e l’azione perde importanza di fronte alla riflessione. Tuttavia, questa impostazione, così rigorosa nel suo intento, finisce per diventare un’arma a doppio taglio. L’assenza di ritmo, la mancanza di variazioni nei movimenti e nella velocità, rischiano di trasformare un viaggio introspettivo in un’esperienza semplicemente lenta, al limite della frustrazione. La pazienza richiesta al giocatore non viene sempre ripagata da un crescendo emotivo o narrativo: si procede, lentamente, con la vaga sensazione di essere immobili, e questo può risultare estremamente faticoso per chi si aspetta anche solo una minima forma di interazione attiva o un’evoluzione del racconto più tangibile. La coerenza stilistica c’è, ma il confine tra meditazione e noia si assottiglia in modo pericoloso. Il comparto visivo segue la stessa filosofia minimalista. Lo stile grafico richiama volutamente i primi esperimenti in 3D degli anni Novanta, con texture essenziali, modelli low-poly e palette cromatiche desaturate. Non c’è ricchezza di dettagli, né ambientazioni ricercate: il mondo di gioco è costruito per essere spoglio, quasi anonimo, ma è proprio questa neutralità a evocare la sensazione di trovarsi in uno spazio indefinito, sospeso tra il sogno e la realtà. L’effetto complessivo è straniante e a tratti disturbante, ma perfettamente coerente con il tema della perdita di orientamento.

Non si può parlare di “A Dream About Parking Lots” senza soffermarsi sulla sua natura dichiaratamente autoriale. È evidente che l’intero progetto nasca da un’esperienza personale, trasposta in forma interattiva con l’intento di comunicare uno stato d’animo più che raccontare una storia. La figura del terapista, che accompagna il giocatore con domande e riflessioni, non è solo un espediente narrativo ma diventa una guida emotiva, che tenta di dare ordine al caos del subconscio. Le interazioni sono semplici, ma dietro la loro apparente banalità si nasconde un dialogo più profondo con il senso di smarrimento e con la frustrazione di chi si sente bloccato, perso in un loop mentale senza via d’uscita. Nonostante l’idea di fondo sia affascinante, la realizzazione pratica mostra inevitabili limiti. L’esperienza complessiva si esaurisce in circa mezz’ora, senza offrire veri stimoli alla rigiocabilità. Le scelte di dialogo, pur permettendo di modulare il tono delle risposte, non portano a ramificazioni narrative significative. La struttura è lineare, e sebbene questo sia in linea con il concept, la sensazione di un percorso predeterminato rischia di smorzare l’impatto emotivo per chi si aspetta una maggiore libertà di esplorazione. Anche sul piano tecnico il gioco mostra i segni di una produzione indipendente: animazioni ridotte al minimo, interazioni limitate, ambienti che tendono a ripetersi. Se da un lato questa semplicità viene giustificata dalla scelta stilistica, dall’altro può risultare un ostacolo alla sospensione dell’incredulità, rendendo l’esperienza visivamente monotona per chi non riesce a calarsi pienamente nell’intento narrativo dell’opera. “A Dream About Parking Lots” è, in definitiva, un progetto che si pone in una nicchia molto specifica. È un’esperienza che parla a chi è disposto a fermarsi, a chi cerca una pausa di introspezione nel mezzo di un panorama videoludico dominato da stimoli continui e incessanti. È un racconto breve, sincero e personale, che però non offre molto a livello di interazione o di sviluppo ludico. La sua forza risiede nell’atmosfera, nella coerenza tra concept e realizzazione, ma questo lo rende anche inevitabilmente un prodotto di nicchia. Chi cerca un titolo contemplativo, quasi terapeutico, potrebbe trovare in questo breve viaggio un’esperienza significativa. Chi invece si aspetta un gioco nel senso più tradizionale del termine, con sfide, scoperte e coinvolgimento attivo, rischia di percepire il tutto come un’esperienza vuota e priva di mordente.

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La recensione

5 Il voto

La valutazione finale riflette il suo dualismo: “A Dream About Parking Lots” è un’opera riuscita nel trasmettere il messaggio che si è prefissata, ma il suo valore dipende fortemente dalla predisposizione del giocatore. Nonostante la coerenza concettuale e la sincerità espressiva, merita non più di un 5 su 10. Un voto che premia la solidità dell’idea e la coerenza della visione, ma che non può non tenere conto degli evidenti limiti strutturali e tecnici di un’esperienza che, per molti, potrebbe risultare troppo essenziale, quasi noiosa, per lasciare un segno duraturo.

Valutazione

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