Dark Atlas: Infernum è uno di quei progetti che nascono con un’identità molto chiara e la portano a compimento, dalle premesse alla realizzazione finale. In questo caso specifico abbiamo tra le mani un horror psicologico che guarda al filone più introspettivo del genere, mescolando esoterismo, distorsioni percettive e tensione lenta, con richiami alle produzioni indipendenti europee più sperimentali. Ritroviamo infatti qualche sentore di Remothered o Martha is dead, non tanto come paragone diretto, ma come parentela stilistica: uso colori desaturati, spazi claustrofobici, simbolismi religiosi o esoterici e così via. La sua atmosfera è infatti il primo elemento che si impone al giocatore, non tanto per il desiderio di scioccare, quanto per la volontà di costruire un mondo in cui la realtà si incrina progressivamente e le certezze narrative vengono meno. Lo studio responsabile, lo spagnolo Night Council Studio, è una realtà giovane che debutta con un progetto ambizioso, pubblicato da Selecta Play, e che punta a inserirsi nel panorama dell’horror psicologico con una visione riconoscibile.

Il racconto è il centro dell’esperienza e segue Natalia Asensio, Gran Maestra di un ordine esoterico che si risveglia in un sotterraneo senza ricordare cosa sia accaduto. Fuori, il mondo sembra sul punto di crollare. Dentro, i suoi ricordi si frantumano in flashback, visioni e simboli che intrecciano colpa, potere e una personale discesa negli inferi. La narrazione evita la linearità e preferisce un andamento più evocativo, dove l’esplorazione fisica si alterna a incursioni in dimensioni mentali deformate. Ne risulta una storia che non si limita a spiegare, ma spinge il giocatore a interpretare e ricomporre frammenti, in un approccio che valorizza l’ambiguità e amplifica l’inquietudine. Volendo incasellarlo in un genere, Dark Atlas: Infernum appartiene al survival horror psicologico in prima persona, ma declina la formula privilegiando lo stealth, la vulnerabilità e la tensione d’attesa. Non ci sono armi, sparatorie o sezioni action: c’è piuttosto la necessità di ascoltare, osservare, muoversi con prudenza e accettare che la protagonista sia più vittima degli eventi che eroina combattiva. Questo orientamento costruisce un ritmo lento e deliberato, che vuole lasciare spazio alle sensazioni e alla percezione dell’ambiente, ma al tempo stesso richiede un certo tipo di predisposizione da parte del giocatore. Il gameplay ruota intorno all’esplorazione, all’interazione con oggetti tramite i quali procedere alla risoluzione di enigmi ambientali. Le meccaniche stealth hanno un ruolo importante e impongono cautela costante: spesso si procede ascoltando rumori lontani o interpretando minuscoli cambiamenti nella scena. La protagonista non ha strumenti di difesa e si affida esclusivamente al movimento e alla gestione degli spazi. La progressione è scandita da apparizioni oniriche e sezioni in cui la realtà si distorce, interrompendo il flusso tradizionale e dando spazio a momenti più simbolici. È un’impostazione coerente con il tipo di esperienza proposta, ma porta con sé alcune rigidità. Il sistema di checkpoint, per esempio, non sempre risulta comodo o ben posizionato, e ciò può generare momenti di frustrazione, in particolare quando si fallisce per un singolo errore di tempismo durante le fasi stealth. Anche l’intelligenza artificiale dei nemici non è sempre costante: a volte percepisce la presenza del giocatore una precisione quasi ultraterrena, altre volte sembra ignorarlo in modo inaspettato. Questi elementi, pur non compromettendo l’esperienza complessiva, incidono sul ritmo e sulla fluidità del gioco.

L’aspetto audiovisivo è probabilmente il punto di forza più evidente del progetto. L’uso delle luci, delle ombre e della palette cromatica costruisce un mondo oppressivo e sporco, fatto di corridoi consumati, pareti danneggiate e scenari che sembrano emanare un senso di decadimento. Tutti gli stilemi visivi tipici del genere sono ben rappresentati. L’impatto visivo rimane costante anche quando la grafica, dal punto di vista tecnico, mostra qualche limite dovuto alla natura indipendente del progetto. Su Switch, la resa generale è buona, seppur con inevitabili compromessi: texture non sempre definite, elementi ambientali leggermente semplificati e qualche calo di nitidezza nei momenti più complessi. Tuttavia, la direzione artistica riesce a compensare le mancanze tecniche, mantenendo lo stile coerente e disturbante che caratterizza il gioco. Il sound design svolge un ruolo fondamentale e accompagna l’intera esperienza con rumori ovattati, lamenti provenienti da stanze lontane e suoni indefiniti che amplificano la tensione. Le musiche vere e proprie sono sparse e usate con parsimonia, quasi sempre a supporto delle sequenze più oniriche. Meno all’altezza, invece, la qualità del doppiaggio, che in alcuni momenti appare rigido o leggermente melodrammatico, riducendo l’impatto emotivo di certe scene. Una recitazione più convincente avrebbe valorizzato ulteriormente la scrittura e le tematiche psicologiche, ma l’insieme rimane comunque funzionale all’atmosfera complessiva. Dark Atlas: Infernum non punta tanto sulla sfida tecnica quanto sulle sensazioni, e quindi accetta ritmi lenti e meccaniche che danno priorità alla tensione piuttosto che al dinamismo. Gli enigmi sono ben integrati nella progressione e spesso richiedono osservazione attenta, anche se talvolta le indicazioni ambientali risultano un po’ troppo sottili, costringendo il giocatore a tentativi ripetuti che spezzano leggermente l’immersione. Non si tratta di un difetto grave, ma è uno di quei dettagli che rendono chiara la dimensione indie del progetto. Chi preferisce l’azione troverà un ritmo troppo lento e un approccio eccessivamente contemplativo. Chi invece cerca un’esperienza centrata sulla tensione psicologica, su simbolismi esoterici e sul senso costante di vulnerabilità, troverà un’opera coerente e ben riuscita nelle sue intenzioni. Anche il prezzo contenuto rispetto ai grandi titoli del genere rende Dark Atlas: Infernum una scelta appetibile per chi vuole sperimentare un horror meno convenzionale.

Come già accennato sul fronte tecnico Switch si comporta in modo dignitoso. La portabilità del titolo funziona, anche se la resa visiva in modalità portatile perde qualcosa in termini di definizione, soprattutto nelle aree più scure. La fluidità resta generalmente stabile, ma non mancano piccole incertezze in alcune zone più complesse o durante certi passaggi guidati, nulla che comprometta l’esperienza ma comunque percepibile dagli occhi più attenti. Data la natura del progetto, i compromessi sono prevedibili, e tutto sommato accettabili, per un risultato finale comunque gradevole. In definitiva Dark Atlas: Infernum convince per atmosfera, direzione artistica, impostazione narrativa e capacità di costruire tensione attraverso suoni e spazi. Dark Atlas Infernum è un titolo coerente nella sua struttura e nella sua messa in opera, sin dalle premesse, senza cercare scorciatoie. Allo stesso tempo, non si possono ignorare i limiti: la struttura dei checkpoint, l’intelligenza artificiale incostante, qualche sbavatura tecnica, la recitazione non sempre incisiva e una lentezza che potrebbe risultare eccessiva anche per gli appassionati del genere. Sono aspetti che non intaccano il valore artistico del progetto, ma ne influenzano la fruizione a livello pratico.
La recensione
Un horror ambizioso che riesce a creare atmosfera e inquietudine, ma che non sempre mantiene la stessa solidità sul piano tecnico e ludico. L’idea c’è, la personalità anche, e in più momenti il gioco mostra lampi di autentica ispirazione. Rimangono però alcune scelte di design e limiti produttivi che ne frenano l’impatto complessivo. Un’esperienza consigliabile a chi cerca un viaggio mentale più che un survival horror tradizionale.












