Aragami 2: la recensione

Tenchu wanna be

Spesso e volentieri il panorama indie propone, per sua stessa natura, concetti del tutto originali, sia sotto il profilo ludico che stilistico, assurgendo a quell’aura di laboratorio tanto cara agli esponenti più artistici, teorici o accademici dell’industria videoludica. Che sia per reazione avanguardistica alle dinamiche standardizzate dei grandi player del settore, piuttosto che per un’innata spinta artistica radicata nell’indole profonda delle menti più creative, questo filone ha caratterizzato gran parte di questo movimento, nel corso degli anni. Ma non è l’unica vena produttiva dello scenario indipendente, che da sempre ha affiancato a questo afflato quasi ribelle anche un’altra anima, volendo più reazionaria, anche se anch’essa in rivolta verso le tendenze accentratrici dell’industria degli ultimi tempi: si tratta della riproposizione (a volte in chiave più moderna, a volte in ottica più rispettosa della tradizione) di contenuti (interattivi o visivi) tipici di un’era passata del videogame. Titoli minori già a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000, che sono poi sostanzialmente scomparsi schiacciati dalla macchina dei grandi publisher, al motto di “fewer – stronger”, incapaci di rientrare negli schemi del mercato di massa, fatto di ottimizzazione degli sforzi produttivi, atti a massimizzare i profitti. I così detti titoli “AA”, ormai appannaggio quasi esclusivo del panorama indie, come ad esempio nel caso di Aragami.

Il primo capitolo della saga è uscito qualche anno addietro, ed è ancora disponibile sull’eShop della console, con il suo carico di sana giocabilità retrò: trattasi di un tributo ai primi giochi tridimensionali ambientati nel Giappone feudale tra ninja e samurai, con tanto onore in salsa Bushido alternato alle ombre degli assassini silenziosi, armati di stellette da lancio, rampini e katane, bombe fumogene, pozioni e acrobazie, con quel pizzico di sovrannaturale che non guasta mai. In una parola, Aragami si è voluto dichiaratamente porre agli occhi dei moderni fruitori come l’erede in salsa indie di Tenchu. Ecco quindi che ne mutua diversi aspetti già con il primo capitolo: l’ambientazione, come detto; le dinamiche ludiche a cavallo tra stealth ed action; le infiltrazioni, le missioni ad obiettivi, le principali azioni eseguibili dal nostro avatar e, almeno in parte, anche atmosfere e sensazioni.

Il seguito ripercorre molte delle orme lasciate dal predecessore sul terreno solcato dall’ammirazione imitativa dell’antesignano sviluppato da Acquire agli albori dei videogame poligonali per console Sony. In un contesto bellico ambientato in un antico Giappone intriso anche di magia oltre che dell’acciaio delle spade, vi risveglierete al fianco di una pila di cadaveri, privi di ricordi, confusi e in pericolo: i nemici sono tutto intorno a voi e dovrete provare ad attraversare un complesso di costruzioni nemiche per allontanarvi dal luogo di una mortale imboscata e potervi mettere al sicuro. Ma sin dalle prime battute del tutorial iniziale si potrà intuire come lo smemorato avatar non sia un uomo qualunque: dotato di invidiabili capacità atletiche che gli consentono di muoversi silenziosamente ma rapido, deciso ma agile tra mura e ostacoli di vario tipo e natura, il protagonista appare anche in possesso di straordinarie capacità di lotta, movimento e analisi ambientale. Se capriole e mosse marziali potrebbero essere frutto di estenuanti allenamenti, i balzi della gittata di diversi metri verso qualsiasi tipo di sporgenza e la capacità di percepire e visualizzare la presenza nemica anche attraverso i muri denotano invece doti piuttosto sovrannaturali, da utilizzare a nostro vantaggio. D’altronde quegli inquietanti occhi bianchi e privi di vita avrebbero dovuto mettervi una pulce nell’orecchio, giusto?

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