Xenoblade Chronicles 3: la recensione

L'atto conclusivo (?) di un'avventura lunga dodici anni sta per svolgersi davanti ai vostri occhi, in esclusiva per Nintendo Switch

Esistono storie nel mondo dei videogame che sanno affascinare ben oltre i confini di un genere, di un hardware o dei semplici gusti personali. Storie che intrecciano situazioni, personaggi e ambizioni tanto sullo schermo quanto tra le pieghe della vita reale, andando a definire le generazioni e ridefinire le aspettative. È senza dubbio il caso di Xenoblade Chronicles, saga nata su Wii ormai una dozzina di anni fa, dopo l’acquisizione di Monolith Soft da parte di Nintendo (per un approfondimento potete leggere il nostro recente articolo): un momento importante, cha ha dato vita a quello che è uno dei percorsi più affascinanti del panorama videoludico degli ultimi vent’anni. Da allora, infatti, la qualità e l’ambizione dei progetti JRPG open world del team di Takahashi hanno portato Nintendo prima e il mondo di appassionati poi a credere sempre più nell’importanza di queste produzioni, tanto da passare da titolo di nicchia mal distribuito, a caposaldo dell’offerta di ogni nuova console della casa di Kyoto. Chiunque, comprando un hardware di Nintendo, si aspetta ormai accanto alle avventure di Zelda, ai saltelli di Mario, alle rilassanti vite di Animal Crossing, agli scontri di Smash Bros..anche i giochi di ruolo di questo talentuoso team. E così sarà ancora di più dopo aver fatto esperienza di Xenoblade Chronicles 3, ve lo garantiamo. Scopriamo insieme il perché!

Xenoblade Chronicles 3 è un nuovo capitolo di una delle saghe più ambiziose del panorama videoludico mondiale in ambito JRPG: l’approccio al genere è infatti assai diverso da quello di molte alte produzioni, pur mantenendo ovviamente diversi crismi tipici del segmeto. Abbiamo un party di combattenti, anche variabile e modificabile proseguendo nella storia, ciascuno con caratteristiche proprie sia a livello narrativo e caratteriale che, soprattutto, in termini di specifiche abilità di combattimento; statistiche di lotta che crescono con l’accumulo di punti esperienza; diverse mosse utilizzabili, ciascuna con i propri esiti e tendenzialmente diversificate in termini di potenza ed efficacia, con quelle più complesse e di valore da utilizzare con parsimonia, una volta caricate barre di energia dedicate; boss di livello/mondo/area da affrontare al termine di un percorso di esplorazione lungo il quale accrescere i nostri livelli di forza, sperando di aver raggiunto valori sufficienti, per non doverci altrimenti dedicare a un altro giro di combattimenti contro nemici qualsiasi, sparsi per le aree di gioco, con il solo scopo di “grindare” (cioè salire di livello appositamente per poter affrontare determinate sfide di difficoltà nettamente più alta rispetto ai normali scontri disseminati lungo i livelli stessi). Quello che distingue la saga da molte altre produzioni, però, è un insieme di elementi propri, assolutamente ascrivibili a Xenoblade e a Xenoblade soltanto, capostipite (cronologico, qualitativo…) di un approccio al genere ben specifico. Da un lato, niente combattimenti a turni (forma di JRPG più classica) né semplici (per quanto spesso anche apprezzabili) derive action, ma un mix di attacchi automatici in tempo reale e iniziative strategiche in mano al fruitore, basate su tempismo, tipologia, posizionamento dei propri avatar rispetto ai nemici; dall’altro, la creazione di mondi enormi, ampiamente esplorabili, assolutamente distanti sia dal mero concetto di open world scarsamente interattivo e superficialmente popolato tanto diffuso al giorno d’oggi, sia dalla basilare costruzione di aree limitate in un susseguirsi di micro ambientazioni ormai arretrate. Infine, un sistema di progressione continua, di immanenza e continuità assolutamente sbalorditivi: nessun limite di caricamenti per ambienti enormi; nessuna schermata di passaggio tra esplorazione e combattimento; nesssun limite (se non legato a particolari specifiche di ludus, sempre coerenti e verosimili) alla volontà del giocatore di muoversi all’interno di questi mondi, raggiungendone i più reconditi anfratti. Xenoblade Chronicles è semplicemente su un altro livello, quando si parla della costruzione dell’universo finzionale e interattivo messo in scena, tanto che parlare di level design è limitativo rispetto alla visione di Takahashi e al lavoro sempre sapientemente svolto dal suo team per rendere tale visione una realtà fruibile dalle mani del consumatore. World building è forse terminologia più adatta, per descrivere l’immane sforzo profuso, sempre con successo, sotto questo versante. Tanto nelle opere precedenti (con il picco toccato nell’apocrifo episodio “X”, ancora ad oggi esclusiva Wii U), quanto in questo terzo capitolo ufficiale.

Xenoblade Chronicles 3 come da dichiarazioni pre-lancio degli stessi sviluppatori riprende le gesta dei mondi narrate nei primi due episodi numerati e, in qualche modo (che non verrà sviscerato in fase di recensione, ovviamente) cercherà di fonderle, portando a compimento un arco narrativo lungo più di dieci anni e spalmato in diversi capitoli. Due universi distinti che, per qualche ragione, andranno a collidere in un nuovo mondo, che tiene traccia (come si evince anche dalla copertina del gioco stesso) sia di elementi derivanti dal bizzarro mondo titanico del capitolo per Wii (riproposto poi in versione Definitiva anche su Switch) che dell’etereo mondo immerso nel mare di nuvole del suo seguito diretto, apparentemente fusi in un unico pianeta, ora. Il ruolo di personaggio chiave del passato, così come di elementi fondanti capaci di definire il senso stesso di realtà di quelle due avventure non verrà svelato sulle nostre pagine, anche se sembra evidente sin dai primi passi come qualcosa abbia forzato l’incontro e la fusione di due realtà precedentemente separate, lasciando (forse) fuori soltanto gli accenni ermetici di percezione tra reale e simulato trattati nell’apocrifo X. La cosa più impressionante, se si pensa ai numerosi innesti narrativi impiantanti nel solido e intricato canovaccio da sempre messo in scena da Monolith Soft, è come questa avventura possa al tempo stesso ergersi a capitolo finale di una maturazione diegetica nata nel 2010 e porsi come esperienza da tabula rasa per i novizi che, peggio per loro, non avessero avuto la fortuna di fruire le gesta di Shulk prima e Rex poi, nelle precedenti incarnazioni del brand negli anni passati. Se infatti è assolutamente vero che i rimandi a situazioni già vissute sono ben presenti e chiaramente intellegibili da parte degli appassionati di lunga data, è altrettanto encomiabile la qualità profusa dagli sceneggiatori nel tessere il racconto realizzato sul proscenio del terzo capitolo in maniera avvincente e onnicomprensiva (oltre che pienamente comprensibile) anche per gli ultimi arrivati. Una qualità non banale, derivante principalmente dalla complessità di certe tematiche sostanzialmente filosofiche trattate da sempre all’interno della saga e capaci, di per sé, di elevarsi al di sopra delle singole e particolari incarnazioni di personaggi e situazioni, per coprire aree di pensiero, ancor prima che di azione, facenti parte del tessuto stesso della realtà e del nostro senso della vita. In una parola: esistenzialismo, come cardine fulcro di tutte le produzioni di questo team di sviluppo. Un approccio forse difficile, ma sempre tenuto in equilibrio da Takahashi, appassionando senza scadere nell’eccesso di noia e tedio, e trattato in maniera ancor più convincente proprio in questo capitolo. Il tono della narrazione, infatti, è ancora più riuscito che in passato, grazie a un approccio sempre adrenalinico, ma a tratti anche introspettivo e, senza dubbio, assai maturo. Ecco così che sin dalle prime battute e ancor prima di calarsi nelle profondità del tessuto stesso della realtà di questo nuovo/vecchio mondo, le gesta di Noa e Mio sapranno conquistare la vostra attenzione e la vostra curiosità, stimolando cuore e cervello.

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