Viewfinder: la recensione

In Viewfinder basta uno scatto per riscrivere la realtà: punta, metti a fuoco, scatta… e il mondo cambia forma.

Quante volte ti hanno detto di provare a vedere la vita da un’altra prospettiva? Viewfinder ti prende in parola — e ti costringe a farlo, letteralmente. Basta puntare, mettere a fuoco, scattare: in un istante, ciò che era solo un’immagine diventa mondo reale, e lo spazio intorno a te si piega alla forza dell’immaginazione. In un’epoca in cui i videogiochi sembrano correre dietro alla complessità, Viewfinder sceglie la via opposta: rallenta, osserva e ci invita a guardare il mondo da un’angolazione nuova. È un puzzle game in prima persona che trasforma un gesto quotidiano, quello di inquadrare uno scenario nell’obiettivo di una macchina fotografica (o più spesso di uno smartphone), in un atto di creazione. Punta, metti a fuoco, scatta: da questo semplice gesto nasce un universo che si ricompone davanti ai nostri occhi. Con pochi elementi e un’idea limpida, Sad Owl Studios costruisce un’esperienza capace di unire meraviglia e intelligenza, un piccolo esperimento visivo che diventa, giocandolo, un atto di poesia.

Lo studio, con sede a Edimburgo, è una piccola realtà indipendente e Viewfinder rappresenta il suo debutto vero e proprio. Pubblicato da Thunderful Publishing nell’estate del 2023, il gioco è arrivato inizialmente su PlayStation 5 e PC, conquistando in breve tempo l’attenzione della critica e numerose candidature ai principali premi di fine anno, tra cui quelle ai Golden Joystick Awards e ai The Game Awards come miglior gioco indipendente e miglior debutto. Un riconoscimento meritato, perché Viewfinder riesce a proporre qualcosa di nuovo in un panorama dove le idee originali sembrano spesso soffocate dal riciclo e dalla ripetizione. Il punto di partenza è tanto semplice quanto geniale: il giocatore può modificare il mondo attorno a sé collocando fotografie o immagini che, una volta “scattate”, diventano reali. Un disegno, una polaroid o una stampa non restano superfici bidimensionali, ma si materializzano nello spazio tridimensionale, creando ponti, muri o percorsi alternativi dando letteralmente vita e profondità dove prima non c’era nulla. Ogni fotografia diventa un frammento di realtà da utilizzare per superare ostacoli e proseguire nei livelli, in un continuo gioco di percezioni, prospettive e logica visiva. L’effetto è dirompente, perché infrange la nostra abitudine a distinguere tra immagine e oggetto: qui le due cose coincidono.

Giocandolo, Viewfinder evoca quel raro senso di spaesamento che solo pochi titoli riescono a trasmettere, quella vertigine che nasce quando il gioco infrange le regole che credevi di conoscere. È una sensazione che mi ha riportato alla mente l’impatto che ebbi con Portal la prima volta che attraversai uno dei suoi portali: il momento in cui lo spazio smette di obbedire e il cervello deve ricalibrare la propria percezione. In Viewfinder accade qualcosa di simile, ma con una delicatezza diversa. Qui non si tratta di aprire varchi nella realtà, bensì di ricomporla attraverso le immagini: fotografie che, una volta posate, si trasformano in ambienti tangibili, generando un effetto di meraviglia e disorientamento insieme. Ogni scatto è un piccolo cortocircuito visivo che ribalta la logica del mondo di gioco e ci costringe a ripensare cosa sia “vero” e cosa sia solo rappresentazione. È un’esperienza più sensoriale che razionale, guidata dall’intuizione, dove l’errore non pesa ma diventa parte del processo, e dove il piacere sta nel trovare la propria via piuttosto che la soluzione giusta.

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