The Outer Worlds: la recensione

Una distopia totalitaria può essere divertente? Secondo Obsidian, sì!

Rientrante a pieno titolo tra quei presunti “port impossibili” che sempre più spesso sono misteriosamente e incomprensibilmente apparsi su Nintendo Switch nel corso degli ultimi anni, The Outer Worlds di Obsidian è un gioco di ruolo occidentale (una volta lo si sarebbe definito “operazione di stampo PCista”) che ha graziato anche i lidi della console ibrida della casa di Kyoto già nel corso del 2020. A onor del vero l’operazione meramente tecnica portata avanti da Virtuos (in collaborazione diretta con il team originale) ha incontrato i suoi bei problemi di conversione, tra tempi di caricamento lunghi e soprattutto invasivi (il buffering dell’immagine avveniva anche durante le fasi di gioco, capaci di interrompersi per alcuni secondi, mentre l’hardware caricava quanto stava avvenendo a schermo) a una generale povertà degli scenari piuttosto deludente. Ma, fedeli all’impegno preso di riuscire a garantire un’esperienza di gioco degna anche agli appassionati possessori di Nintendo Switch, i programmatori hanno continuato a migliorare questa versione, rilasciando diverse patch e aggiornamenti (siamo oggi arrivati alla versione 1.0.5), tanto da migliorare sensibilmente la percezione rispetto ad allora. Ed eccoci qui, in occasione dell’uscita del secondo corposo DLC (Assassinio su Eridano, disponibile da domani 9 settembre), che verrà recensito sulle nostre pagine tra qualche giorno, a fornirvi un giudizio aggiornato su quello che è oggi il titolo base di Obsidian. Allora allacciatevi le cinture, il viaggio interplanetario di The Outer Worlds comincia su Switchitalia!

Il gioco in questione è sotto diversi aspetti il più classico dei GDR, intesi come Giochi Di Ruolo di stampo occidentale, con tanti elementi derivanti dalla più tradizionale routine da PC, ambientato in un universo narrativo davvero bizzarro e interessante, che rappresenta il vero cardine dell’operazione ideata da Obsidian: in un futuro nemmeno troppo distante dal nostro, la conquista di altri pianeti è ormai consolidata e i viaggi interstellari per sfuggire dalla tetra madre Terra sono all’ordine del giorno. Raggiungere una delle colonie, prestare servizio per alcuni anni in lavori più o meno umili, per poi conquistarsi la libertà di affrontare una nuova vita su un nuovo pianeta, il sogno realizzabile dai più. Non una chimera, ma un obiettivo realizzabile, attraverso sacrifici comprensibili e congrui, pur di riuscire ad accedere alla nuova frontiera dell’umanità. Peccato che a volte affrontare la sospensione criogenica non sia propriamente una passeggiata, soprattutto quando i simpatici manager della colonia decidono che non valga la pena investire grandi cifre nel recupero di astronavi alla deriva nello spazio aperto, valutando migliaia di vite umane sul piatto della fredda analisi di costi-ricavi e decidendo così di abbandonare i propri simili sull’altare del profitto, pur di mandare avanti i propri affari nel nuovo Eden intergalattico. Tutti, tranne un simpatico e apparentemente svitato scienziato, rinnegato dalla colonia stessa (che anzi ha già messo una taglia sulla sua testa, con tanto di manifesti da ricercato, come nel Far West), pronto a mettersi in gioco pur di recuperare almeno uno dei superstiti della nave abbandonata, per poi sfruttarlo per i propri scopi: recuperare fondi e riserve necessarie per riuscire a rianimare anche tutti gli altri mancati coloni, così da poterli salvare (e, chissà, magari organizzare una piccola falange di rinnegati, pronti a seguirlo nell’ardua impresa di ribaltare lo status quo sul nuovo pianeta alieno). Ovviamente, i fortunati prescelti saremo noi, recuperati dal naufragio stellare e lanciati sulla superficie del pianeta, senza grandi preparativi né cortei d’accoglienza.

Un incipit narrativo non originalissimo, ma raccontato sin dalle primissime battute con grande ironia e dialoghi a tratti davvero divertenti, accompagnati per altro in questa cavalcata di comicità raffinata e mai volgare da tutto un insieme di elementi diegetici davvero di gran pregio. Capace in qualche modo di richiamare alla mente sia Fallout (per la giocabilità soprattutto), che Mass Effect (per la ricchezza ambientale di queste location aliene), il titolo non può non riportare alla memoria anche le atmosfere di Bioshock, per la concezione politica di un’utopia distopica dittatoriale o quantomeno oligarchica, dove i sogni e le speranze di una nuova alba per l’umanità naufragano tristemente contro le solite bassezze e piccolezze del nostro animo, tra avidità e sete di potere, sfruttamento e segregazione. Ma, contrariamente all’opera di Irrational Games, in The Outer Worlds a prevalere è l’ironia, tra manifesti pubblicitari grotteschi e piccoli ma costanti indizi della kafkiana follia che pervade la struttura sociale di questo nuovo-mondo-tanto-simile-al-peggio-del-vecchio. In particolare, sono i dialoghi con i (numerosissimi) NPC a portare avanti questa caratterizzazione del mondo di gioco, rivelandosi tra le fasi più riuscite della programmazione, tanto da rendere (stranamente) accattivanti i vasti dialoghi e le loro continue ramificazioni, garantite dalla notevole libertà di opzioni e scelta lasciate nelle mani del fruitore.

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